Se il tuo unico reddito è la Naspi e ti chiedi se devi comunque pagare il mantenimento, la risposta potrebbe sorprenderti. Non sempre è obbligatorio, ma solo in certi casi ben precisi.
Separarsi è spesso anche una complicata partita a scacchi fatta di regole, doveri, pretese e carte bollate. Tra tutte le domande che iniziano a rincorrersi nella testa nel momento in cui una relazione si chiude, ce n’è una che prima o poi arriva: e adesso, come pago il mantenimento se non ho nemmeno un lavoro fisso? O peggio, se sto vivendo con la Naspi?

Non è raro che uno dei due, al momento della separazione o del divorzio, si ritrovi con un reddito ridotto all’osso o addirittura inesistente. Magari ha perso il lavoro da poco, o ha un impiego precario, oppure incassa mensilmente solo quell’indennità temporanea chiamata Naspi che, diciamocelo, spesso basta giusto per coprire affitto e bollette.
Eppure dall’altra parte c’è un ex coniuge, magari con figli a carico, che ha tutto il diritto di ricevere il sostegno previsto. La legge in questi casi non chiude un occhio e nemmeno due, ma cerca di mantenere un equilibrio che non sempre è facile. Perché da una parte ci sono i doveri familiari, dall’altra la semplice sopravvivenza. E allora viene spontaneo chiedersi: ma davvero sono costretto a versare l’assegno anche se sto campando con quattro spicci?
“Non lavoro, non pago?”. Quando la Naspi non basta a giustificare l’esenzione dal mantenimento
Chi pensa che basti essere disoccupati per liberarsi da ogni obbligo economico verso figli o ex partner dovrà rivedere le proprie certezze. In linea di principio, l’obbligo di mantenimento non sparisce magicamente appena si resta senza lavoro. Il fatto di percepire la Naspi, per quanto esiguo possa sembrare, è comunque considerato un reddito e come tale può rientrare nei calcoli del giudice quando si stabilisce se e quanto bisogna versare ogni mese.

Certo, non è che si possa pretendere da chi vive con 700 euro al mese un assegno da 500, ma il punto è che il dovere di contribuire al mantenimento resta, anche se in misura più contenuta. La vera discriminante arriva quando il genitore o l’ex coniuge dimostra, carte alla mano, di trovarsi in una condizione davvero critica.
Parliamo di chi non ha altri redditi, non possiede nemmeno un garage da affittare, ha cercato lavoro ovunque e invano e magari sta vivendo con l’aiuto dei familiari. Solo in questi casi il giudice può decidere che non c’è spazio per ulteriori sacrifici e sospendere il pagamento dell’assegno.
Chi semplicemente se ne sta con le mani in mano sperando che il tempo sistemi tutto, difficilmente riceverà comprensione in tribunale. La legge guarda con severità chi non si attiva, chi non cerca un’occupazione, chi non prova nemmeno a cavarsela. L’impegno conta, e parecchio. E per chi, pur potendo, si ostina a non pagare? Lì si passa dal civile al penale. Rischi concreti: pignoramenti, multe e, nei casi più gravi, anche condanne.

Anche quando l’assegno è destinato all’ex coniuge e non ai figli, la musica non cambia. L’obbligo c’è finché non viene formalmente revocato, e dev’essere giustificato da una reale impossibilità economica, non da una semplice antipatia verso l’ex partner.
Se ti trovi in difficoltà non sperare che tutto si aggiusti da solo. Meglio affrontare la questione, magari con l’aiuto di un avvocato, e chiedere al giudice una revisione dell’importo.